domenica, settembre 24, 2006

Pordenone legge (?)


Il nostro paese vanta un grande popolo di "curiosi", che non perde occasione per animare le feste culturali più disparate ogni volta che ne ha l'opportunità. Ormai da nord a sud le kermesse letterarie punteggiano diffusamente lo stivale, formando un percorso ideale lungo cui si snoda una carovana di presenzialisti prestati ora dalle istituzioni, ora dallo spettacolo, intenti a proporre teofanie in divenire. Questo percorso vorticoso somiglia sempre di più ad una sagra itinerante ove, accanto alle proposte precipue fatte di appuntamenti programmati, non si contano le iniziative collaterali che puntano a rimpinguare i bilanci di un commercio alla ricerca di tentazioni autocelebrative. A conti fatti mentre le cifre sciorinate in queste circostanze offrono un adesione di pubblico in continua crescita, non altrettanto si può affermare per quelle riferite alle vendite dei prodotti editoriali (libri, dvd), che migliorano con lentezza poco incoraggiante, alla stregua dei lettori che sul suolo italico stentano ad aumentare, rasentando ancora percentuali degne del terzo mondo. Anche Pordenone, città del nord-est, ha allestito il suo personale contributo a questo trend, trovando edizione dopo edizione una propria fisionomia, ricca talora di presenze autorevoli e di eventi diffusi. Peccato che non tutti gli appuntamenti siano adeguatamente supportati a livello organizzativo, come quello che ho avuto modo di frequentare nella giornata di sabato 23 settembre, dedicato alla talentuosa e famosissima poetessa russa Bella Achmadulina. Presenza algida, ricca di fascino e di vigore interpretativo, si è donata al pubblico accorso numeroso all'appuntamento con grande abbandono, animando le sue poesie in maniera impeccabile e calandoci in una temperie espressionista degna d'altri tempi. Purtroppo la tensione di questa testimonianza non era corroborata in modo adeguato da parte dello staff presente in sala, che poteva vantare una curatrice pasticciona, un traduttore approssimativo e una lettrice troppo affetta da protagonismo. Risultato: un climax impeccabile in una corte di ripetenti senza appello (voto 8/4).

martedì, settembre 19, 2006

Dalla realtà al reality e ritorno

La realtà è una dimensione del vivere di cui tutti hanno consapevolezza universale ma di cui ognuno ha una esperienza particolare: infatti gli eventi o gli stati fisici che la sottende sono avvertiti in maniera differente da ogni persona e di conseguenza inducono ad una diversa lettura dell'esistente. Nondimeno essendo spesso sentita come una emanazione del concreto, disseminata com'è di paure e di incognite, si cerca sovente di ignorarla ricorrendo agli espedienti più disparati: dalla dipendenza ai farmaci, all'uso di sostanze psicotrope, per arrivare fino al ricorso ostentato della malattia mentale. Probabilmente per questi ed altri motivi più reconditi è invalsa ormai l'abitudine di ribaltare l'ordine naturale delle cose e attribuire un'importanza capitale a eventi virtuali, del tutto avulsi dalla prassi corrente, come i reality televisivi che in maniera pervasiva si stanno diffondendo nelle reti nazionali. Trasmissioni simili hanno messo il turbo alle aspettative di fama e di benessere che una storia personale mediamente ordinaria finirebbe a tanta gente per impedire, permettendo nel contempo la creazione di un format di successo dal duplice obiettivo: creare l'attrattiva tipica del gossip negando nello stesso tempo la veridicità e il fondamento del suo supporto narrativo, incentrato sul succedersi della vita quotidiana. Anni fa il noto artista americano Andy Warhol aveva preconizzato l'enorme impatto che il mezzo televisivo avrebbe avuto nella vita di tutti i giorni, anticipando con una felice battuta che per suo tramite ognuno di noi avrebbe avuto il suo quarto d'ora di notorietà. Seppur a distanza di anni non possiamo che essere d'accordo con lui, al punto di riconoscere la nascita e lo sviluppo di autentiche figure "professionali" che hanno fondato la loro fortuna su queste comparsate televisive: in questo modo si è costituito un mondo parallelo, fatto di nani e ballerine, il cui scopo primario sarebbe quello di intrattenere il pubblico davanti al video. Queste figure vagano così per allestimenti collaudati che presentano sempre uno spettacolo isterico, immerso in situazioni concentrazionarie, da cui una regia invisibile cerca di riprodurre le reazioni più controverse. In questo teatro delle crudeltà, che farebbe invidia alle rappresentazioni visionarie di Huxley o di Zamjatin, si condensa il calcolo oltraggioso di una società massificata, ove il vero non è che un risvolto del falso, ove il mito della fiaba è stato travolto sotto il peso della retorica cialtrona delle emozioni a buon mercato. Chiederci dove ci porterà questo palcoscenico slabbrato è diventato nel frattempo occupazione devota per molti opinionisti, il cui solo merito è quello di frequentare salotti ben informati, ove transitano addetti ai lavori da cui cogliere un cenno eloquente, una parola definitiva che possa illuminarci sul nostro futuro prossimo venturo salvo forse, quello sì, suggerirci come ritornare alla vecchia, noiosa realtà di una volta.

venerdì, settembre 15, 2006

Meret Oppenheim, la classe non è acqua!









lunedì, settembre 11, 2006

Percentuali

Qualche giorno fa sulle pagine del Manifesto, Rossana Rossanda ha rievocato il profilo del grande timoniere, del presidente-bambino Mao Tsetung, facendo un rapido bilancio delle sue gesta.
Da questa analisi, partita dalla messa in onda sulla rete franco-tedesca Arte di una articolata inchiesta sul suo percorso politico, emergevano due risultati contrapposti facilmente riassumibili: un 70% di esiti positivi e il restante 30% di esiti negativi. A dispetto di tanta precisione si pronunciava qualche giorno dopo Pierluigi Battista che, dalle pagine del Corriere, si chiedeva come mai qualcuno tornasse ancora su temi così desueti, per passare poi ad una rapida rassegna delle efferatezze più spietate di cui il nostro si sarebbe macchiato, rovesciando i termini in gioco per riattribuirgli a suo dire un più equo equilibrio. Comunque sia ho pensato c'è poco di cui rallegrarsi, in quanto fatto il conto su una storiografia assai tormentata e ancora suscettibile di interpretazioni così differenti, mi chiedo invece cosa dire dei tempi odierni, presi come siamo nel vortice dello spamming giornaliero cui ci sottopongono i media di casa nostra. Infatti intanto che parliamo si sta consumando l'ennesimo tormentone finanziario che, dopo esser passato come una delle prime operazioni di privatizzazione nazionale, ha finito per trasformarsi in una voragine di debiti senza fine, con buona pace dei suoi azionisti e di tutti i suoi clienti. Parlo ovviamente della Telecom che, finita inizialmente nella mani di "capitani coraggiosi", ha proseguito poi il suo cammino per approdare in quelle di soci non meno creativi che, pur di salvaguardare il loro investimento, non hanno badato a spese taglieggiando risorse a destra e a manca, decidendo alla fine di risolvere tutto con un bel spezzatino fumante da offrire in pasto ad un mercato senza scrupoli. In questo bailamme nessuno sembra preoccuparsi dei tanti che in un proscenio simile potrebbero perdere il loro posto di lavoro, magari anche solo per compensare qualche plusvalenza mancata o solo per rendere più attraente una preda già di per sè appetibile. Evidentemente sono argomenti che non vanno più di moda, tanto che per sentirne parlare bisogna aprire la radio e cercare con pazienza certosina l'ultimo lavoro di Bob Dylan, Modern Times, che con la solita maestria sa parlare al cuore e allo stomaco di tanta gente. Guarda un pò se dopo tanti fermenti rivoluzionari, l'assalto al cuore dello stato, la liberazione sessuale e molto altro ancora, dovevamo rivolgerci al solito menestrello di Duluth, che dai tempi di Blowin' in the Wind riesce a guardare prima e meglio degli altri ai "tempi che stanno cambiando".

mercoledì, settembre 06, 2006

I love Mark Ryden!




lunedì, settembre 04, 2006

Caro manifesto

Caro manifesto, sabato scorso ho acquistato come di consueto l'edizione in edicola, passando quindi alla lettura e sfogliandolo pagina dopo pagina sentivo salire un senso di disappunto diffuso. Osservavo la carta, scorrevo la grafica e i titoli, per poi calarmi nella selezione degli articoli a mio avviso più sentiti, ma per quanto ci provassi non riuscivo ad allontanare quello spirito di distratta assuefazione. Sono un lettore di vecchia data, tant'è che la prima copia penso risalga ai primi anni '70, di quando il giornale assomigliava più a un bollettino politico che altro. Vi ho seguiti con entusiasmo negli anni successivi fino ad oggi, aderendo volentieri alla proposta di azionariato diffuso che vi fornì certamente una vernice innovativa e perchè no anche di capitali freschi per continuare il vostro cammino. Ho vissuto con timore e partecipata perplessità le numerose disavventure finanziarie che in questi anni hanno ostacolato la vostra vita editoriale, coraggiosa e piena d'inventiva ma anche di errori di valutazione che vi sono costati difficili rimonte. Ma questa volta, per quanto partecipe, sento che qualcosa non va e non si tratta di affetto mancato o di scarsità di informazione, è il fatto che un giornale come questo, così marcatamente fuori dal coro, non può più sopravvivere a lungo con una veste così lugubre, poco accattivante e con una grafica priva di movimento. Se poi ci mettiamo la linea del giornale, per quanta smussata da punti di vista disarmonici, e la prevedibilità degli argomenti, ne deriva un senso di rigida affabulazione che non fa onore a chi lo scrive e tantomeno ai suoi lettori. Quindi a mio avviso, accanto alla grande campagna di autofinanziamento, sarebbe opportuno aprire un grande dibattito anche sui contenuti, a partire proprio dalla veste editoriale perchè, se la forma è sempre anche sostanza, non è più rinviabile una riflessione sul "modo" in cui ci si propone in edicola. Con affetto e stima, cordiali saluti.